Luisa Doplicher ha conseguito laurea e dottorato in fisica teorica alla Sapienza di Roma. Dopo alcuni post-doc in Italia e all’estero ha lasciato la ricerca scientifica per dedicarsi alla traduzione di saggistica divulgativa, dall’inglese e dal francese. Ha tradotto: Nel mondo di mezzo di Mark Haw (Zanichelli, 2008), Il luna park della fisica di Jearl Walker (in collaborazione con Luigi Civalleri, Zanichelli, 2008-9), 1089 e altri numeri magici di David Acheson (Zanichelli, 2009), Più o meno quanto? di Lawrence Weinstein e John A. Adam(Zanichelli, 2009), La scienza in cucina di Hervé This (Dedalo, 2010), Le regole del gioco di Peter Atkins (Zanichelli, 2010), Gli antenati di Jill Rubalcaba e Peter Robertshaw (Zanichelli, 2011), Darwin di J.A. Secord, S.B. Carroll, S. Jones, P. Seabright e J. Dupré (Zanichelli, 2011), Capire davvero la relatività di Daniel F. Styer (Zanichelli, 2012), Algebra utile e divertente di Michael Willers (Hoepli, 2012), Geometria utile e divertente di Mike Askew e Sheila Ebbutt (Hoepli, 2012), Le stranezze del clima di Climate Central (Zanichelli, 2013), e i testi per ragazzi Scopri il mondo e Com’è fatto? di Okido (Gallucci, 2013). Ha anche tradotto il romanzo Il colore della felicità in collaborazione con Emanuelle Caillat (E/O, 2009) e rivisto la traduzione della biografia Vito Volterra di Judith R. Goodstein (traduzione di Carlotta Scaramuzzi, Zanichelli, 2009).
Luisa, benvenuta sul blog di Tradurre per l’editoria. Per conoscerci un po’ meglio, iniziamo con un paio di domande specifiche sul tuo lavoro: Che tipo di testi traduci? Sono più le volte che fai tu delle proposte a una casa editrice o sono più le volte che ti commissionano loro un testo?
Traduco divulgazione scientifica, cioè libri che tentano di trasmettere alcuni concetti scientifici al grande pubblico, in maniera discorsiva e limitando al massimo le formule. Nel mio caso le scienze in questione sono la fisica o la matematica, che conosco meglio, ma ho anche fatto qualche incursione nella biologia. Com’è ovvio, più ci si allontana dagli ambiti a me familiari, meno saprò cogliere eventuali errori, ma gli editori lo sanno e in caso prevedono una rilettura da parte di uno specialista.
Per lo più si tratta di libri destinati a un pubblico adolescente o adulto, ma di recente mi è capitato anche di tradurre libri divulgativi per bambini. È stata un’esperienza molto interessante, spero di poterla ripetere.
Quanto alle proposte: ne ho fatte alcune, ma non sono mai andate in porto! Tenterò ancora…
Che tipo di conoscenze dovrebbe avere un traduttore che voglia intraprendere la tua strada?
È assolutamente necessario avere solide basi scientifiche. Le conoscenze scolastiche non bastano, bisogna arrivare a un livello universitario. Questo non tanto per le nozioni acquisite – oltre un certo minimo sindacale, prima o poi le nozioni si dimenticano – ma per l’impostazione che, almeno nella mia esperienza, viene data soltanto all’università: ragionare, mettere in discussione, maneggiare il metodo scientifico. È una forma mentis essenziale se si vuole avere una qualche speranza di scovare gli errori e le imprecisioni del testo.
Come per ogni tipo di traduzione, infine, occorre conoscere molto bene la lingua del testo originale e ancor più saper maneggiare l’italiano.
Ci racconti il tuo esordio da traduttrice?
Quando ho deciso di abbandonare la ricerca scientifica, per prima cosa mi sono iscritta ad alcune mailing list di traduttori, a cominciare da Biblit. Seguendole ho imparato moltissimo e scoperto l’esistenza di vari corsi che ho poi seguito, fra cui il master in traduzione letteraria di Misano Adriatico. Con una formazione universitaria lontanissima dal mondo umanistico, avevo molte lacune da colmare… Nello stesso periodo ho superato la prova di traduzione grazie a cui mi è stato assegnato il primo libro, Nel mondo di mezzo di Mark Haw, pubblicato da Zanichelli. Ero al contempo entusiasta dell’incarico e terrorizzata alla prospettiva di dover consegnare centinaia di pagine in un tempo non infinito! Eppure in qualche modo ce l’ho fatta, e da lì è iniziato tutto.
Qual è la cosa più importante da fare quando si traduce questo tipo di testi?
Tutto discende dallo scopo principe dei testi che traduco: offrire una lettura gradevole che riesca a trasmettere un concetto, semplificandolo senza banalizzare. Le priorità quindi sono due; tanto per cominciare, la correttezza e la chiarezza del contenuto scientifico. Cerco di tenere gli occhi aperti per scovare eventuali errori; se ne trovo, a meno che si tratti di banali sviste o refusi, contatto l’autore e cerco di appianare. In alcuni casi, quando non si trattava di veri e propri errori ma di descrizioni superate da importanti ricerche successive, l’autore ha acconsentito ad aggiungere qualche pagina di poscritto; abbiamo così potuto realizzare un’edizione italiana più aggiornata dell’originale. Se invece il testo è corretto ma poco chiaro, aggiungo a volte qualche frase per facilitare la comprensione.
D’altro canto, bisogna ricordare che il lettore non è tenuto a studiare il libro a ogni costo, come lo sarebbe uno studente, per esempio. Bisogna quindi rendere la lettura il più scorrevole possibile. Naturalmente questa preoccupazione spetta in gran parte all’autore, ma io faccio la mia parte limando le asperità dello stile e modificando il ritmo della frase, adattandola alle caratteristiche dell’italiano e alla difficoltà dei concetti in questione.
Quali sono le prime cose che fai quando inizi una traduzione? I primi passi che affronti?
Non inizio leggendo il libro; passo subito a una prima stesura, che stilisticamente è inguardabile ma mi permette di cominciare ad allontanarmi dalla lingua originale. Allo stesso tempo cerco di scovare tutti i punti dubbi, dal punto di vista sia linguistico sia fattuale, e provo a risolvere con varie ricerche su internet. Se ciò non basta, mi appunto la questione per poi scrivere all’autore o, in certi casi, a specialisti che possano essere di aiuto. Per quanto riguarda i problemi linguistici, nei casi più disperati ricorro alle mailing list di traduttori. Nelle revisioni successive, in numero variabile a seconda del testo e del tempo a disposizione, mi occupo quasi esclusivamente della resa in italiano.
So che alcuni colleghi riescono a fare una prima stesura già quasi accettabile. Ho provato anche questo metodo, ma dubito che sia adatto a me: mi richiede uno sforzo assai maggiore, che non riesco sempre a fare continuativamente per l’intero libro già nelle primissime fasi del lavoro.
Cosa ti piace di più del tuo lavoro?
Mi piace molto il lato artigianale della traduzione, il lavorio di lima su ogni singola frase e parola; probabilmente si addice alla mia indole. E limando mi incanto a osservare le strategie diverse adottate dalle varie lingue per trasmettere uno stesso significato, una stessa emozione.
Allo stesso tempo, adoro scoprire cose nuove, e ogni libro me lo permette! Direi quasi che le traduzioni divulgative hanno il «rischio professionale» di perdersi per ore in link di approfondimento su un tema cui magari l’autore ha dedicato soltanto un breve accenno… È affascinante poter spaziare così, anche se mi rendo conto che è una conoscenza superficiale rispetto a quella assai più ristretta ma assai più approfondita che ho incontrato negli studi universitari. Temo sia anche più tipica dei tempi recenti.
Come ti aggiorni?
Pur vivendo all’estero, cerco di partecipare ad alcune delle varie fiere del libro che si tengono qua e là per l’Italia, così come alle Giornate della traduzione letteraria di Urbino. Amo l’atmosfera galvanizzante e gli incontri con i colleghi, che ridanno energia per altri mesi di lavoro solitario. Non bisogna poi dimenticare l’apprendimento continuo offerto dalle mailing list di traduttori, fra cui quella del sindacato STRADE.
Negli ultimi tempi, poi, si stanno moltiplicando i laboratori di traduzione diretti non soltanto ai principianti, ma anche a chi lavora già, come Traduttori in movimento al Castello di Fosdinovo. Sono un’occasione preziosa di lavorare insieme e confrontarsi con i colleghi; li trovo assai più interessanti dei seminari teorici, dato che permettono di osservare in pratica il modo di procedere di ciascuno.
Cosa ti piace di meno del tuo lavoro?
La solitudine e il fatto che, per quanto cerchi di organizzarmi, gli ultimi giorni prima della consegna sono sempre massacranti!
Più seriamente, non mi piace affatto la scarsa considerazione riservata alla figura del traduttore. Personalmente non ho da lamentarmi, ma è indubbio che per la categoria in generale l’equità nelle condizioni contrattuali e nei compensi sia spesso un miraggio. Non mi piace nemmeno la poca visibilità del nostro lavoro; nonostante vari progressi recenti, molti giornalisti stentano ancora a capire che citare il traduttore è un obbligo di legge, oltre che un segno di rispetto per il suo lavoro.
Che rapporto hai con gli scrittori che traduci? E con le case editrici?
Cerco sempre di mettermi in contatto con l’autore, che è la prima persona da interpellare in caso di dubbi sul significato o la correttezza del testo. Può non essere immediato arrivare a una comunicazione diretta, ma una volta stabilita quella, per fortuna, ho avuto quasi sempre a che fare con persone disponibili, sollecite e precise nelle risposte. Alcune volte non sono arrivati a convincermi al cento per cento, ma naturalmente l’ultima parola spetta a loro.
Con alcuni editori il rapporto è più che ottimo: perfetto. Con altri meno idilliaco, ma si tratta assolutamente di piccolezze rispetto alle sventure capitate ad alcuni colleghi. Da questo punto di vista posso senz’altro ritenermi fortunata.
Dove lavori? Qual è il tuo ambiente ideale?
Mi è capitato di lavorare in treno, in aereo, in biblioteca, in casa di parenti e amici… Di getto mi verrebbe da dire che l’ambiente ideale è casa propria, ma mi sono resa conto che ogni tanto cambiare aiuta! Forse la novità tiene occupata quella parte di cervello che vorrebbe distrarsi, permettendo al resto di combinare qualcosa. Dipende anche dalla fase del lavoro: la prima stesura potrei buttarla giù quasi ovunque, ma procedendo via via con le varie riletture ho sempre più bisogno di silenzio e tranquillità. Forse allora l’ideale è la biblioteca, che aiuta a concentrarsi non solo grazie all’ambiente tranquillo, ma anche alla semplice presenza di altri esseri umani. Dovrei andarci più spesso!