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Intervista a Isabella Zani: il dialogo fra traduttori

Ciao Isabella, prima di tutto vuoi presentarti ai nostri corsisti? Come hai cominciato a tradurre, e quali autori da te tradotti ami di più?

Buongiorno a tutti, e grazie per l’invito. Ho 46 anni, un diploma di liceo linguistico dove ho studiato inglese e tedesco, una laurea breve in Relazioni pubbliche e comunicazione d’impresa conseguita allo IULM di Milano, e un passato da impiegata nel settore dei beni industriali. Malgrado tutto questo, i miei primi tentativi di «tradurre» risalgono alla scuola media, e come passatempo personale ho continuato a fare esercizi di traduzione dall’inglese ininterrottamente fino al 2002, quando mi sono iscritta al master «Tradurre la letteratura» di Misano Adriatico curato da Stefano Arduini e Ilide Carmignani. Mentre lo frequentavo ho ottenuto, tramite una prova di traduzione sottoposta a tutti i corsisti, il mio primo contratto per tradurre un romanzo di ambientazione storica (l’editore era Rizzoli); da allora non mi sono più fermata, quindi sono nel mio tredicesimo anno di attività.

Fra i «miei» autori il mio affetto più profondo va a Moris Farhi, che è diventato un amico dopo che l’ho tradotto, e a Charles Lambert che era un amico prima che lo traducessi; a Hugo Hamilton, Francisco Goldman e Justin Cartwright perché la loro prosa ha fatto di me una traduttrice migliore; e a Eudora Welty perché la sua scrittura mi ricorda ogni giorno che non si deve mai smettere di provare a migliorare in quello che si fa.

Oltre alla tua attività di traduttrice, hai anche contribuito a fondare STradE. Puoi spiegarci di cosa si tratta?

Strade, il Sindacato dei Traduttori Editoriali, è un’associazione costituita nel 2012 dopo quasi un decennio di militanza di molti suoi membri nella Sezione Traduttori del Sindacato Nazionale Scrittori della CGIL. Accoglie traduttori professionisti ed esordienti con diverse formule associative e si impegna a metterli in contatto fra loro, farne crescere la consapevolezza collettiva come categoria professionale, assisterli nei rapporti con la committenza, tutelarne e migliorarne per quanto possibile le condizioni di lavoro.

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Perché è necessario un sindacato dedicato ai traduttori editoriali?

In linea generale perché qualunque lavoratore ha bisogno di essere rappresentato dinanzi alla parte committente, dato che gli interessi di chi dà lavoro e di chi lo offre non sempre coincidono. In particolare i traduttori editoriali, che non sono strutturati all’interno delle aziende editrici né appartengono a un ordine o albo, e svolgono un mestiere per sua natura solitario, vivono storicamente una condizione di isolamento e debolezza contrattuale che gli ha fin qui impedito di vivere dignitosamente del loro lavoro. Oggi però è possibile comunicare e organizzarsi efficacemente anche a distanza, il che ha parzialmente posto rimedio al problema dell’isolamento; e quest’opportunità ci ha anche permesso di radunare informazione ed esperienza che, messa in comune, ha dato forma e orientamento al nostro bisogno di lavorare in condizioni migliori e di avviare battaglie impossibili da fare ciascuno per sé, ma con buone speranze di riuscita se condotte tutti insieme.

Hai creato una mailing list di traduttori editoriali. Quanto è importante dialogare con i colleghi per chi svolge questo lavoro tutto sommato solitario?

Per come la vedo io è fondamentale, non se ne può prescindere, sostengo con forza che dal confronto con i colleghi escono traduttori e traduzioni migliori: e si badi che non è sempre stato possibile. Il dialogo fra traduttori, che lavorino nella stessa combinazione linguistica, in quella inversa o anche in altre (perché anche gli approcci di metodo possono essere utilmente comparati), è un privilegio toccato ai traduttori attivi alla fine del Novecento, grazie a Internet. Continuiamo a lavorare per lo più da soli, ma non siamo più soli; e scambiando conoscenza ed esperienza otteniamo un risultato superiore alla somma delle parti. Ricade sempre – e giustamente – solo sull’autore della traduzione l’onere della scelta finale, e giustamente a lui solo spetta l’onore per un lavoro ben fatto, pur nella consapevolezza che ogni traduzione è un’opera collettiva. Ma poter condividere in fase di stesura dubbi, perplessità, chiedere e dare una mano con un passaggio ostico, mettere convinzioni personali – che possono riguardare anche solo il senso o l’uso di una parola – alla prova dei colleghi e della loro sensibilità è un aiuto a mio avviso inestimabile, e contribuisce molto al buon esito finale.

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Quali sono gli errori più frequenti di chi si avvicina al mondo della traduzione editoriale?

Sul piano dell’atteggiamento: l’errore di accostarvisi pensando che sia un dorato empireo di intellettuali integerrimi che sanno vivere al di sopra di prosaiche preoccupazioni come soldi e diritti, un nirvana di amanti delle belle lettere in cui la «passione» vince su tutto, dai contratti capestro, ai compensi indegni, ai tempi di consegna da laboratorio tessile clandestino. La letteratura è un bene dello spirito, ma i libri sono beni di consumo e chi li fa lo ha ben presente: ma poiché anche noi contribuiamo a farli, cerchiamo a nostra volta di tenerlo presente, e poiché anche il nostro lavoro è un bene di scambio, cerchiamo di non svalutarlo accettando elemosine o, peggio, lavoro gratuito. Cerchiamo di appassionarci fin da subito anche alla dignità professionale, oltre che a quella letteraria.

Sul piano della formazione: l’errore di credere che la laurea, il master, il corso facciano il traduttore, mentre fanno solo il laureato; il traduttore si fa man mano con le sue traduzioni, ognuna auspicabilmente migliore della precedente. Pur temendo di essere fraintesa, vorrei sintetizzare dicendo che questo «non è un mestiere per giovani». Mi spiego: nel suo testo il traduttore deve certo mettere ciò che ha studiato, ma anche ciò che ha letto, visto, sentito, vissuto; e se posso permettermi un giochetto, per vivere bisogna… vivere. Quando mi è capitato di incontrare studenti di traduzione ho sempre raccomandato loro di prepararsi al meglio dal punto di vista accademico, certo, ma anche di non avere fretta di mettersi a tradurre, e fare invece esperienze intellettuali e di vita. Leggere fino allo stremo delle forze, e leggere di tutto senza snobismi; viaggiare più che si può; andare al cinema, guardare la televisione (compresa la pubblicità), sentire la radio, imparare a padroneggiare al massimo la tecnologia digitale per far sì che lavori per noi, interessarsi di musica, arte, politica, scienza. («Leggere fino allo stremo delle forze» l’ho già detto?) Finanziando magari tutto questo impegno con lavori saltuari che possono anche non avere nulla a che fare con traduzioni e libri, ma che mettono in relazione con le persone. E le persone si scambiano parole (circa sedicimila al giorno); e un aspirante traduttore, di queste parole, deve rubarne quante più può. Con garbo, ma deve impossessarsi di tutte le parole del mondo; perché se è dotato di talento e di tenacia, verrà il giorno in cui gli serviranno tutte le parole del mondo (più alcune che dovrà inventarsi lui). Non pensarsi «pronti» a vent’anni, e invece prendersi il tempo di capire come funziona la propria mente e quella degli altri. Primum vivere, deinde vertere.

Quali doti dovrebbe avere un buon traduttore?

Buona salute (a questo proposito, Strade consente l’accesso a una mutua sanitaria personalizzata e agevolata, dato che per i traduttori non esiste assistenza sanitaria legata alla professione). Resistenza fisica. Curiosità, curiosità, curiosità, curiosità. Capacità di ascolto, anche dispersivo, prima e durante l’elaborazione, concentrazione e risolutezza per condurre l’opera alla fine. Attitudine ai rapporti umani, e non sembri un paradosso. Non solo si parla con i colleghi, ma spesso bisogna anche chiedere aiuto ad altri: di libro in libro il traduttore si ritrova chirurgo di guerra, sciantosa di caffè concerto, esperto gemmologo, poliziotta di frontiera, avvocato di multinazionali, maestra di pianoforte, caporeparto metalmeccanico. E gli capita di dover andare da una di queste persone a chiedere: Scusi, nel suo campo come si dice…? Perciò, non essere troppo timidi o misantropi è un vantaggio.

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Parliamo della famosa «invisibilità del traduttore»: va combattuta o ricercata? E in che modo?

Va ricercata l’invisibilità che si sostanzia in un testo il più possibile privo di automatismi, pigrizie, idioletti, ma qui forse più che di invisibilità parlerei di levità: il traduttore si vede (sta lì, sul frontespizio!), però ha la mano così leggera che ogni sua traduzione risulta diversa perché lascia parlare l’originale. Risultato che si consegue, credo, solo leggendo molto e traducendo il più possibile, per poi avere la fortuna di essere rivisti da bravi editor.

Ritengo vada combattuta, invece, l’invisibilità del traduttore intesa come assenza di qualunque riconoscimento oltre il compenso: l’invisibilità nelle schede di presentazione dei libri sui siti web degli editori, nei comunicati dei loro uffici stampa, nelle recensioni spesso accompagnate da citazioni testuali, nei box informativi dove trova posto anche il codice ISBN ma mai il nome del traduttore, nei blog più o meno specializzati, nelle trasmissioni radio e TV in cui si recensiscono libri, adesso perfino negli spot pubblicitari che utilizzano brani letterari in traduzione. Non tutti gli editori e non tutte le testate sono uguali: ci sono eccezioni anche importanti. Ma in generale, non appena il libro esce il traduttore cessa di esistere (salvo che sia considerato un utile veicolo promozionale). Quest’invisibilità credo vada combattuta con ogni mezzo (e iscriversi a Strade è un punto di partenza per combatterla insieme anziché da soli).

Infine mi piacerebbe saper combattere quel particolare aspetto dell’invisibilità – frutto di pura scortesia – per cui un «tuo» autore vince un premio in Italia, oppure è ospite di una manifestazione letteraria, e tu non solo non vieni invitato, ma nemmeno informato.

Secondo te qual è la difficoltà maggiore quando si traduce?

Per come si svolge la professione oggi, cercare di far stare tutta la fatica, l’attenzione, la ricerca e lo scrupolo necessari a una bella traduzione nei tempi imposti dall’editoria. Si cominciano a pretendere oltre cento pagine di traduzione «finita» in un mese, e sono troppe: perché seppure le nuove modalità di circolazione delle informazioni hanno impresso un’accelerazione ai tempi del commercio e del marketing, purtroppo la traduzione – anche con l’ausilio della tecnologia – rimane il lavoro lento che è sempre stato. Come ogni scrittura, la traduzione richiede tempo, e oggi in editoria il tempo è la risorsa più scarsa. Problema che tocca peraltro tutti gli «addetti al lavoro» dei libri: oltre ai traduttori, gli editori in persona, gli autori e i gli agenti, i buyer e i responsabili di collana, i lettori redazionali e gli editor, i revisori e i correttori di bozze, forse anche i promotori e i librai. Tutta gente che per fare bene il suo lavoro dovrebbe avere tempo, molto più tempo a disposizione: e prima ancora che per discernere e valutare, per leggere. In editoria non si legge. È triste, ma è così: per tener dietro al rapido passo commerciale si acquisiscono titoli che non si leggono, si commissionano traduzioni che non vengono lette, si rivedono traduzioni di libri che non sono stati letti e che spesso, per questo, sono brutti. È una situazione triste: intanto crea il paradosso per cui il traduttore, al quale viene chiesta un’opera di qualità in tempi assai stretti, è spesso l’unico a leggere il libro da cima a fondo, ma soprattutto – è un parere strettamente personale – è una causa della sempre maggiore disaffezione del pubblico all’oggetto-libro. Non l’unica e magari nemmeno la più seria, ma secondo me concomitante.

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Domanda da un milione di dollari: esiste l’intraducibile?

No. Aspetta solo il suo traduttore.

Qual è la cosa che ami di più di questo lavoro? E quella che ami di meno?

La cosa che amo di più di questo lavoro sono i colleghi, e a pari merito l’opportunità costante di imparare cose nuove. La cosa che amo di meno è dover sollecitare i pagamenti quando non arrivano alla scadenza stabilita dal contratto. È una enorme perdita di tempo e di serenità e un’umiliazione che brucia sempre.

8 risposte su “Intervista a Isabella Zani: il dialogo fra traduttori”

Torno a ringraziarvi per l’opportunità offertami di parlare un po’ del mio lavoro. E a proposito di dialogo fra traduttori, tengo a segnalare che i romanzi dietro due delle copertine scelte per illustrare l’intervista (La magia di un giorno perfetto, Piemme, e Tutta la luce che non vediamo, di prossima uscita per Rizzoli) sono stati tradotti a quattro mani con il collega Daniele A. Gewurz; mentre i racconti di Liesl Jobson “Cento strappi”, pubblicati da Marcos y Marcos, sono il frutto di un laboratorio di traduzione durato sei mesi, nel corso del quale ho coordinato il lavoro di ventiquattro traduttori esordienti. Non tutto merito mio, dunque.

Sono ancora io, la smemorata di Anzio. A proposito di illustrazioni, anche L’amore bugiardo di Gillian Flynn è un lavoro a quattro mani, in cui io sono “la moglie” e Francesco Graziosi è “il marito” in traduzione. E ci siamo trovati così bene che abbiamo tradotto anche i dialoghi del film…

intervista bellissima e molto saggia… è vero che si diventa traduttori vivendo, viaggiando e facendo esperienze di vita. Trovo molto difficile accedere al mondo della traduzione, ovvero riuscire a farsi dare i primi lavori di traduzione. Questo mestiere richiede tempi di “entrata” nel mondo del lavoro troppo lunghi, per non parlare delle energie e dei soldi investiti… tutto questo per guadagnare spesso compensi poco dignitosi, forse tutte queste cose andrebbero dette nelle scuole per interpreti e traduttori prima dell’iscrizione! In un periodo della mia vita ho trovato più vantaggioso fare l’impiegata piuttosto che la traduttrice, meno faticoso e meglio retribuito, non ha senso però, dato che per fare il traduttore bisogna formarsi molto e il lavoro è impegnativo.

Hai ragione, gattolibero. E in effetti non è una cosa che nascondiamo ai nostri iscritti. Non è semplice accedere a questo mondo ma ci sono dei metodi per arrivare alle redazioni in maniera chiara ed efficace. Noi cerchiamo di formare i traduttori anche da questo punto di vista, prepararli al mondo del lavoro, non solo ad affrontare la traduzione di testi. Le interviste come quelle di Isabella ci aiutano anche a capire, nel concreto, dalla viva voce e dalle esperienze altrui, tutti gli aspetti della professione.

Cara gattolibero,
hai senz’altro ragione nel dire che le barriere all’entrata in questo mestiere sono molto alte, e una volta dentro ci si accorge che la gabbia non è affatto dorata, anzi è rugginosa ed esposta a tutti i venti, che ultimamente sono sempre più venti di ribasso. Io stessa sono entrata nel mondo del lavoro editoriale perché “presentata” dalle docenti del corso (Giovanna Scocchera e Monica Pareschi, che non ringrazierò mai abbastanza per la fiducia e i consigli), le quali scelsero e rividero la mia prova di traduzione e decisero a mio favore. Il mio vantaggio però, oltre a un certo talentaccio grezzo, era anche anagrafico: avevo già quasi 34 anni, lavoravo da 15 (erano altri tempi, lo so) e avevo potuto fare esperienze di vita, oltre ad aver letto un po’ (ribadisco che nessuno legge mai “abbastanza”. Se non si ha il vizio delle parole, meglio non provarci neanche).
L’altezza delle barriere dipende in parte da un modo ancora un po’ vecchio, da parte delle redazioni, di cercare nuovi collaboratori quando ne hanno bisogno: basato soprattutto sul passaparola, perché ancora ai tempi in cui ho cominciato io esistevano pochissime scuole che formassero traduttori, ci si formava sul campo e sul campo si sgomitava, ma si era in meno a provarci. Adesso le scuole ci sono, e molte sono alquanto serie: però, da una parte le redazioni non sono ancora uscite dall’abitudine del passaparola e non propongono in maniera sistematica prove di traduzione, anche solo per segnarsi il nome di qualche giovane promettente; e dall’altra, la moltiplicazione delle occasioni formative ha enormemente aumentato anche il numero di coloro che aspirano a diventare traduttori, e quindi la concorrenza è molto più difficile da affrontare e si fatica di più per farsi ascoltare. Per poi, come dici, se va bene, ritrovarsi a non guadagnare abbastanza di che vivere… problema che con l’aumentare della domanda di lavoro ovviamente peggiora. Il lavoro che stiamo facendo con Strade serve anche a questo. In ogni caso, in bocca al lupo per qualunque tua attività.

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