Buongiorno, grazie di aver accettato l’intervista. Oggi si parla di traduzione da diversi punti di vista e la consapevolezza del ruolo del traduttore cresce. Era così anche qualche anno fa?
Credo che rispetto a quando ho iniziato a interessarmi di traduzione – da studentessa prima e da professionista poi, diciamo una quindicina di anni fa – oggi si parli più di traduzione, ma soprattutto in modo diverso. A rischio di risultare subito impopolare, direi che si parla di traduzione non tanto con una maggiore consapevolezza di ciò che il processo comporta, del mestiere, dei rapporti testuali ed extra-testuali che sottintende – almeno non in ambiti accademici – , quanto con un maggiore interesse per gli attori della traduzione, soprattutto se certi episodi possono fare notizia. Non mi piacciono in generale gli atteggiamenti sensazionalistici, e trovo che anche nella traduzione ci si fermi ultimamente a parlare della figura del traduttore che fa “tendenza” o che ha una storia particolare da raccontare, dimenticando che dietro la traduzione c’è un mestiere che tanti professionisti svolgono con altrettanta serietà, passione e dedizione, pur non avendo occasione di vivere esperienze particolarmente esaltanti. Con questo non voglio mal giudicare quei traduttori di cui si parla e si scrive, perché è anche grazie ai loro racconti e alle loro esperienze che spesso vengono fatti circolare concetti importanti per tutta la categoria, ma trovo fastidioso che – anche nella traduzione, come in tanti altri ambiti – si vada a caccia dello “scoop” prima ancora di prendere atto della normale quotidianità della professione.
Ha tradotto moltissimi autori di grande livello: Chuck Kinder, Mavis Gallant, Richard Mason, E.C. Morgan, Amanda Davis, Tillie Olsen. Ha avuto modo di confrontarsi con qualcuno di loro sulla traduzione dei loro testi?
Devo innanzitutto premettere che per me, il rapporto con l’autore (vivente) è un’arma a doppio taglio. Si è portati a considerare la presenza dell’autore come una grande risorsa, pensando che qualunque difficoltà possa verificarsi durante la traduzione non potrà certo essere insormontabile, visto che possiamo chiedere aiuto a lui/lei. Invece, in modi diversi e per motivi diversi, le mie occasioni di contatto con l’autore si sono rivelate belle e importanti non tanto per la risoluzione di problemi di traduzione, quanto per la prospettiva diversa che mi hanno portato ad avere sul lavoro che stavo facendo. Interpellando Chuck Kinder per una questione lessicale – l’aggettivo “cool” che veniva usato trasversalmente in tutte le sue sfumature semantiche e campi di applicazione e richiedeva di poter essere reso con altrettanta ripetitività – mi sono sentita rispondere “lascia pure cool, tanto si capisce”. Non che io abbia seguito il consiglio, o almeno non del tutto, ma l’ho sempre considerata una lezione fondamentale rispetto al rapporto traduttore-lettore, che non deve essere di assoluto paternalismo bensì dovrebbe tenere conto da un lato delle capacità intuitive e interpretative di ogni lettore, dall’altro comprendere che forse è proprio nel “non detto” e nel “non spiegato” che si gioca la bontà di una traduzione e di un testo in generale. C’è poi il caso di Tillie Olsen, che ho avuto la faccia tosta di contattare telefonicamente per poi ritrovarmi con una fantozziana salivazione azzerata quando quel genio novantatreenne mi ha risposto all’altro capo del telefono. Avevo avuto il privilegio di tradurre “Tell me a riddle”, e di cose da chiederle ne avevo una montagna perché la prosa di quei racconti è una scrittura di silenzi, di deviazioni dalla norma, di scarti. Quando però ho sentito la sua voce, e mi sono ricordata che dietro quella voce c’era una vita incredibile che aveva raccontato altrettante storie incredibili, le mie domande sono sembrate tutte stupide e mi sono limitata a ringraziarla di quello che aveva scritto e, fondamentalmente, di esistere. Quella situazione mi ha insegnato che il traduttore deve prendere il coraggio a dieci mani e assumersi le sue responsabilità, anche se la cosa fa paura. Ma del resto, è proprio questo il privilegio, no? Il rapporto con Mavis Gallant è stato di rispettoso distacco: non ho mai cercato di mettermi in contatto con lei perché con la sua scrittura ho sentito fin da subito grande affinità. Ci ho visto subito chiaro, insomma: quello che scriveva si lasciava interpretare e tradurre agilmente dal mio italiano. Ma è stata lei, a cercarmi: in maniera del tutto inaspettata, e vi lascio immaginare con che gioia e soddisfazione da parte mia, mi ha spedito un biglietto scritto di suo pugno per ringraziarmi del lavoro fatto e per dirmi che se i suoi racconti avevano avuto tanto successo in Italia, il merito era anche mio. Come non amarla?
Lei si occupa anche di formazione, all’Università e in diversi seminari in giro per l’Italia. Qual è l’aspetto che più la incuriosisce del rapporto con i suoi studenti?
Mi piace soprattutto vedere realizzarsi qualcosa in cui credo, e cioè che si può imparare a tradurre, e che saper tradurre non è solo un talento o un dono divino. In un corso di traduzione devono necessariamente confluire istruzione e formazione: una trasmissione di quelle conoscenze che servono a riflettere, a ragionare, a dare un nome a ciò che si fa e a sapere perché lo si fa; e una acquisizione di competenze, di abilità, di comportamenti strategici da mettere in atto nella pratica della traduzione, possibilmente in diversi ambiti e contesti. Che si diventi ottimi traduttori o traduttori famosi (e non necessariamente le due cose devono coincidere), non dipende solo dal nostro talento di partenza o dalla istruzione/formazione ricevuta, ma anche dalle occasioni professionali che abbiamo la fortuna o la sfortuna di affrontare. Misurarsi con autori difficili o importanti può servire a farci sentire inadeguati, a prendere atto delle nostre debolezze, ma può anche essere uno stimolo a fare di più e meglio del solito, può costringerci a inventarci nuove strategie, un nuovo modo di vedere il nostro lavoro, e dunque ci porta a crescere professionalmente e a migliorare. Questo è un po’ quello che mi incuriosisce anche nel modo in cui gli studenti reagiscono davanti a una nuova traduzione da svolgere: qualcuno si sente frenato da un senso di inadeguatezza, altri invece affrontano con più ingenuità e sfrontatezza il compito, ed è proprio da questa diversità di approcci, dal più timido al più spavaldo, che si impara. E io imparo sempre qualcosa di nuovo.
Dove preferisce lavorare quando traduce?
Poiché la traduzione editoriale non è la mia attività principale (dal punto di vista retributivo e di impegno orario il mio lavoro principale è quello di insegnante di lingua inglese in una scuola media, ma confesso che l’attività che più mi identifica professionalmente e umanamente è la traduzione) e poiché lavoro e famiglia mi costringono spesso a una flessibilità esagerata, fra cambi di programma, soluzioni estemporanee di problemi e via dicendo, tendo a ritagliarmi per la traduzione uno spazio fisico e temporale il più possibile costante e consueto. Una stessa postazione, un tot ore al giorno, possibilmente in una stessa fascia oraria, il tutto ovviamente circondato dal caos, altrimenti non c’è gusto.
Ci vuole raccontare il suo esordio da traduttrice?
La mia prima traduzione è stata un lavoro a quattro mani subito dopo aver partecipato al corso “Tradurre la letteratura”, organizzato dell’attuale Fondazione San Pellegrino, e sotto la guida della preziosa amica e collega Lucia Olivieri. Sono seguite altre traduzioni a due voci con Ada Arduini e questa modalità di lavoro, oltre ad aver prodotto una bella amicizia ha anche plasmato in un certo senso il mio atteggiamento verso la traduzione, ovvero la costante consapevolezza della presenza dell’ “altro” e il sentimento di rispetto e accoglienza che richiede. Partecipare ad altri seminari, incontri, corsi (fondamentale, sotto tanti punti di vista, è stata la Summer School del British Centre for Literary Translation a Norwich, dove ho conosciuto Rossella Bernascone e Susanna Basso. Definirle ottime traduttrici è quanto mai riduttivo. Sono donne speciali.) è stato importantissimo per misurare le mie reali potenzialità e mostrare ciò che sapevo fare. Da lì, grazie al passaparola, ho fatto prove di traduzione andate a buon fine e, un po’ alla volta, ho ampliato la rosa dei committenti e la qualità delle proposte.
Può farci un esempio di una difficoltà che mentre traduceva le sembrava insuperabile, e che poi ha risolto?
Non ne ricordo una in particolare, ma tante: di comprensione della lingua e del senso (Tillie Olsen, Janet Frame), di resa (Sarah Hall), di complessità di ricerca (Norman Rush). Le difficoltà sono state tutte diverse ma con un tratto comune: il fatto che a renderle insuperabili fosse la mancanza della visione di insieme. Ogni difficoltà sembra insuperabile se ci sei invischiato dentro. È un po’ come con le sabbie mobili: se ci sei immerso fino al collo, impossibile uscirne fuori, ma se riesci a sporgerti con una mano o con un piede, se riesci ad allungarti verso la terra ferma e a toccarla, puoi usare un appoggio o un appiglio per fare leva e almeno provare a uscirne. Questa è per me ormai una certezza: ogni difficoltà cambia aspetto e proporzione se vista dall’esterno. È per questo che ho imparato a non prendere decisioni affrettate ma a confidare nella visione d’insieme di fine lavoro, che serve sia a capire con maggiore chiarezza quello che abbiamo fatto o dobbiamo ancora fare, e a dare il giusto peso alle cose. Non bisogna dimenticare poi che il concetto di difficoltà è assolutamente volatile e soggettivo, persino per una stessa persona. Si può essere incapaci di comprendere una frase alle 10 di mattina e trovarla assolutamente normale alle 10 di sera.
Come dovrebbe essere la relazione ideale tra traduttore e redazione?
Innanzitutto dovrebbe esserci e dovrebbe essere continuativa e precoce: al momento dell’assegnazione dell’incarico di traduzione, sarebbe bello avere per esempio qualcosa di più di nome dell’autore, titolo del libro, scadenza e tariffa, tanto per cominciare. Capire cosa l’editore si aspetta da quel libro, perché è stato scelto. E poi durante e dopo la traduzione, poter contare sull’esperienza quantitativamente e qualitativamente diversa che una redazione interna consolidata ha rispetto a quella più frammentaria e diversificata di un traduttore.
La revisione delle traduzioni viene ancora troppo spesso sottovalutata. Perché secondo lei?
Vorrei fornire due punti di vista sulla questione: quello del traduttore rivisto e quello della casa editrice. Purtroppo il traduttore rivisto è ancora vittima di una serie di pregiudizi, in parte ovvi (sapere di essere in qualche modo giudicati non piace a nessuno), in parte causati proprio dalla scarsa pratica della collaborazione traduttore-revisore, per cui la revisione è ancora troppo spesso un tabù ed è considerata sinonimo di censura e deterioramento della traduzione. Per le case editrici si tratta spesso di una questione economica: una revisione costa, soprattutto se da lingue minori. Qui si potrebbe aprire una lunga e polemica parentesi sulla pratica di far rivedere traduzioni a revisori che non conoscono la lingua straniera di partenza: inutile inorridire tanto, purtroppo succede, e anche in questo caso la convenienza per il committente è puramente economica. C’è poi un terzo aspetto che fa ancora della revisione “la sorellastra” della traduzione: una formazione specifica, accademica e non, ancora scarsa e frammentaria che deve inoltre fare i conti con un crescente smantellamento delle redazioni interne alle case editrici, luogo formativo ideale.
Un consiglio ai traduttori alle prime armi?
Mettersi costantemente alla prova (questo vale per ogni traduttore in generale, comunque), compatibilmente con le possibilità economiche, continuare a frequentare occasioni formative in cui si possano testare le proprie capacità e anche farsi conoscere. Le difficoltà di accesso a questa professione sono maggiori rispetto a quindici anni fa e aumenteranno sempre di più, perché ci sono più giovani che si stanno formando e il mercato della traduzione si sta riducendo. Ma siccome sono convinta che la fortuna non venga mai a bussare alla porta, ma siamo noi che dovremmo stanarla a casa sua, il consiglio generale è quello della massima mobilità e flessibilità sia fisica sia mentale.
Qual è l’ultimo libro che ha letto?
L’arte di correre, di Haruki Murakami, traduzione di Antonietta Pastore.
Una risposta su “Intervista a Giovanna Scocchera: tradurre con la massima mobilità e flessibilità, fisiche e mentali”
Reblogged this on Debora Serrentino – Traduttrice freelance and commented:
Intervista molto interessante a Giovanna Scocchera sulla traduzione editoriale.