(Intervista di Rossella Monaco)
Buongiorno, Paola e grazie di aver accettato l’intervista.
Buongiorno e grazie a voi.
Da quale lingua traduci prevalentemente? E perché questa scelta?
Traduco dal francese perché è la lingua seconda nella quale mi sento più a mio agio, ho studiato male l’inglese e per poco tempo il russo. Inoltre dopo la laurea in Italia, ho continuato gli studi a Parigi, dove ho vissuto per circa otto anni e dove vivo ora. Il francese fa parte dei miei percorsi di ricerca e di vita quasi inseparabili. Mi sono laureata con una tesi in semiotica su un romanzo di Georges Simenon, poi ho studiato cinema, storia della fotografia e infine ho fatto un dottorato in Letterature comparate sui rapporti tra l’Italia e la Francia.
Dove traduci? Qual è il luogo della casa/dell’ufficio/in esterna che dedichi a questa attività e quali caratteristiche ha?
Preferisco lavorare in casa e in silenzio, con la radio accesa, ma lontana. La scrivania è nella mia camera e la radio in cucina. Il mio spazio di lavoro deve essere una “stanza tutta per me”.
Ciononostante se la traduzione non è ancora in una fase di concentrazione intensa, per non isolarmi troppo, mi piace condividere gli spazi con altre persone: nelle biblioteche, nei bar oppure a casa di amici. Penso che stare vicini mentre si lavora permetta degli scambi guardandosi in faccia e non solo mediati da uno schermo.
Quale approccio scegli avvicinandoti per la prima volta al testo da tradurre?
Dipende tutto dal testo, e a volte anche dai tempi di consegna. Alcuni testi li ho già letti, spesso perché li ho proposti, quindi c’è una prospettiva di approccio e di lettura già in un certo senso impostata. Poi traducendoli risuonano in una maniera diversa, è un po’ come un amico che si rivede dopo tanto e dal quale si ha voglia di farsi raccontare cosa gli è successo nel frattempo.
Trovo molto interessante però anche l’approccio del tradurre senza leggere prima. In questo caso so già che avrò bisogno di più lentezza, di più riletture, ma mi sento anche più libera di mettermi a disposizione della narratività, in tutti i sensi (diegetici, ritmici, stilistici ecc.).
Quali sono le difficoltà più grandi nella traduzione dal francese all’italiano?
La falsa similarità tra le due lingue, quindi il rischio dei calchi. Se di base è una difficoltà a livello semantico e sintattico, poi si complica declinandosi sull’essenziale, il ritmo, la voce.
Questa “ossessione del calco” è però a volte anche divertente volendo. Si diventa un po’ maniacali e l’ironia salva sempre.
Ho notato però che più traduco, più consulto dizionari, anche per i termini più “semplici”, ho sempre più bisogno di allargare i supporti, le impalcature, ho sempre più bisogno di avere dei dubbi, dei sospetti.
La traduzione che hai fatto che reputi migliore.
Penso e spero sia l’ultima e da quella migliorare sempre. Traduco generi molto diversi tra loro, quindi non riesco ad applicare categorie di paragone. La saga pubblicata dalla collana LainYA di Fazi, “Le stelle di Noss Head” di Sophie Jomain, mi ha insegnato molto sulla costruzione dei personaggi, sul ritmo, sui dialoghi, sugli equilibri tra la suspense e l’ironia, sull’evolvere della trama all’interno di temi come la ricerca dell’identità, l’amore, l’amicizia. “Innocente” di Gérard Depardieu pubblicato di Clichy mi ha permesso un lavoro sul ritmo, sul respiro, sulla voce.
Traduco anche sceneggiature e sottotitoli, quindi mi è difficile fare confronti all’interno di materiali testuali tanto diversi. E poi, appunto, mi interessa di più lavorare su come migliorare.
Quali sono i pregi e i difetti del mestiere?
Il primo pregio è la passione. Può sembrare un’affermazione banale o romantica, ma la intendo come il privilegio di sentirmi viva quando traduco. Poi la libertà di movimento, potere viaggiare ad esempio, ho solo bisogno di silenzi. Un altro pregio, non ultimo, è poter incontrare e conoscere delle persone che condividono gli entusiasmi per la “parola”. Un elemento che può essere a metà strada tra i pregi e i difetti è la perseveranza, ci si deve dare del tempo e continuare a mettersi sempre in dubbio: per imparare, per continuare a imparare, per trovare un proprio equilibrio anche rispetto a come porsi nel mondo del lavoro. I difetti sono quelli di un mestiere che è ancora poco riconosciuto, ma penso non si possa generalizzare, anche qui molto dipende da come si costruiscono i rapporti tra le persone. Io ho imparato molto grazie al confronto con professionisti che avevano e hanno più esperienza di me.
Un altro difetto che si lega al pregio principale, la passione, è la fatica, ma non è realmente un difetto, è uno sforzo, una ginnastica, una tenuta.
Trasferire significati da una lingua all’altra presuppone anche uno scambio culturale tra due mondi. Come vive questo aspetto della traduzione?
Sì, è trasferire mondi. Penso a Italo Calvino quando scriveva che la letteratura conduce al passaggio da un oggetto materiale all’immaginazione, cioè alla costruzione di un mondo e di mondi possibili. Questa costruzione di mondi possibili si forma anche attraverso l’incontro tra il testo e la lettura, tra il testo e la traduzione, tra i testi in differenti culture, ecc..
Nella mia esperienza quotidiana, vivere in un paese in cui si parla la lingua dalla quale traduco mi permette di sentirla viva. Le mie figlie ora studiano alla scuola pubblica francese e il fatto che siano bilingue ci fa avere degli scambi molto divertenti e stimolanti anche mentre traduco. I loro nonni paterni sono marocchini e il nonno è il Grand Robert di riferimento. Quando ho dei dubbi, la mia prima insegnante di francese all’Alliance di Parigi (anche se ho iniziato a studiare francese alle scuole medie) rivede con me passaggi, modi di dire, espressioni. E poi chiedo, al fornaio, al fioraio, ecc..
Da un altro punto di vista, a parte i libri che leggo perché vorrei portarli in Italia, per il resto leggo solo in italiano, anche traduzioni. Innanzitutto perché è l’italiano la lingua attraverso la quale devo “trasferire” queste forme e sostanze di significati e di significanti. E poi perché è la lingua che sento in maniera più profonda.
Nelle traduzioni trasferire interamente mondi è a mio avviso impossibile, perché le culture sono diverse, anche solo la fonetica è diversa, i modi di dire, le ricchezze e gli spessori della società all’interno della lingua. E tutto questo ricade su un insieme complesso di fattori, un’alchimia anche talvolta, che dà vita, o dovrebbe, a “quasi” lo stesso mondo in un “quasi” altro. Si può cercare di ricrearli, partendo dal rispetto per il testo d’origine e per tutto il suo universo, che non bisogna mai perdere di vista, permettendo alla voce che dislochi equilibri di senso, in termini greimasiani, imperfetti.
Come ti trovi nel rapporto con il revisore una volta che hai consegnato il lavoro?
Se c’è un rispetto per la traduzione, bene. Con “rispetto” intendo che la persona che lavora alla revisione abbia presente che il lavoro è stato un percorso di scelte.
Come ti aggiorni?
Per quanto riguarda l’aggiornamento sul lavoro della traduzione, cerco di frequentare dei corsi di traduzione, delle conferenze, se possibile delle residenze. Ogni volta che ascolto o leggo i traduttori e le traduttrici mi nutro di insegnamenti e di entusiasmo. Sento che solo così posso continuare.
Poi c’è un aggiornamento quotidiano, fatto di letture: articoli, supplementi e pagine culturali, testi di linguistica. E ovviamente le biblioteche e le librerie, preferisco quelle “di quartiere” dove si può parlare con gli altri, chiedere consigli.
Mi piace ascoltare le persone che raccontano dei libri che leggono.
Anche seguire altre forme d’arte è un grande stimolo, dal quale poi può scattare il clic che si cercava durante il lavoro, magari la parola da tradurre che si era annidata in testa da giorni e sulla quale non si veniva a capo.
Novità in cantiere?
Ora sto lavorando al quarto volume della saga di Sophie Jomain e ad alcune proposte, sia di opere da tradurre verso l’italiano sia di opere italiane da pubblicare in Francia, per le quali non mi occuperei ovviamente della traduzione.
Ci sono autori e artisti bravissimi al mondo, mi piace farli muovere, provare a collaborare per farli conoscere. Dopodiché l’opera può anche prendere la sua strada, conquistare una libertà e parlare tramite la propria voce.
Una risposta su “Intervista a Paola Checcoli: tradurre è trasferire mondi possibili… e impossibili”
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