(Intervista di Rossella Monaco)
Buongiorno, ci racconti il tuo esordio da traduttore?
Fu quasi 17 anni fa, con un libro di storia economica del 1841 che mi era stato proposto dal Sole 24 Ore (su segnalazione di mio padre, che lavorava per il giornale e avrebbe curato l’introduzione e la revisione tecnica). Il titolo inglese era Extraordinary Popular Delusions and the Madness of Crowds di Charles Mackay: per il titolo italiano invertirono l’ordine dei fattori e uscì come La pazzia delle folle ovvero le grandi illusioni collettive. L’argomento, come si evince dal titolo, era la storia delle prime bolle finanziarie. Oltre al saggio di Mackay il libro conteneva estratti di un testo del 1688 dell’ebreo sefardita e uomo d’affari olandese Joseph de la Vega, Confusión de confusiones, una sorta di vademecum sul funzionamento della Borsa in forma di dialogo tra un mercante, un filosofo e un azionista. Se oggi – con più di 40 libri e 4.000 articoli alle spalle e l’economia che nel frattempo è diventata la mia specializzazione principale – mi proponessero di tradurre un testo di economia scritto in inglese dell’Ottocento e un trattatello filosofico in spagnolo del Seicento, la prospettiva mi procurerebbe una certa ansia. Ma all’epoca, con l’incoscienza dell’esordiente, non mi sembrava questa grande impresa: vedevo la traduzione come un lavoro semplice e rilassante, tanto da essere disposto a farlo anche da una lingua – l’inglese – che avevo studiato poco e di cui avevo una conoscenza attiva molto limitata. Altri miei lavori dei primi anni a rileggerli oggi mi fanno storcere il naso, questo invece scorre bene e non cambierei granché: forse il merito è proprio di quella “spensieratezza” di approccio.
Quali qualità richiede questo lavoro?
Ci sono quelle ovvie e indispensabili per tutti che sono la capacità di scrivere bene in italiano e conoscenza, quantomeno passiva e testuale, della lingua straniera. Poi ce ne sono altre due che sono prioritarie per me, ma forse secondarie per altri: la prima è la scrupolosità, la pignoleria di ragionare su una sfumatura di registro, di non accontentarsi di un calco accettabile ma poco elegante, di andarsi a cercare la versione italiana di un nome geografico, di indagare su un riferimento culturale per capire se ci sia bisogno di esplicitarlo, di fare il possibile per ricercare la traduzione italiana pubblicata di una citazione; la seconda (e qui probabilmente sono influenzato dal fatto di lavorare principalmente per i quotidiani, altri potrebbero giudicarla perfino un difetto) è la velocità, saper produrre un testo di buona qualità in tempi rapidi o a volte rapidissimi.
Com’è evidente si tratta di due esigenze in contraddizione tra loro e le mie traduzioni nella stragrande maggioranza dei casi sono un compromesso più o meno riuscito tra questi due poli opposti. Trovo che si controbilancino efficacemente: le ristrettezze di tempo mi impediscono di eccedere nella cura dei dettagli e lo spirito pignolo mi evita di consegnare lavori sciatti. Essendo abituato da anni a lavorare così, e forse anche per una mia forma mentis, ormai ho introiettato questa “virtù del mezzo” e trovo faticoso protrarre oltre un certo livello la cura del testo.
Quando hai iniziato avevi già chiaro in mente cosa comporta il mestiere?
No. Avevo studiato per tre anni in una scuola interpreti e traduttori, ma lì ti insegnavano la lingua straniera, più che a tradurre. Le lezioni di traduzione verso l’italiano erano essenzialmente esercizi: ti davano un testo, tu lo traducevi, l’insegnante ti dava un voto. Il funzionamento del mercato, la procedura di lavorazione delle traduzioni nei vari settori, come presentare curriculum o proposte di lavoro, come costruirsi dei glossari, come presentare un lavoro a livello di formattazione e norme redazionali o anche semplicemente come approcciare il testo per sfuggire ai calchi più comuni, sono tutte cose che ho imparato per lo più sul campo, negli anni e talvolta a mie spese.
Per quali editori traduci prevalentemente? Ogni redazione ha un suo modo di operare?
In tutta la carriera ho lavorato per una decina di editori, ma solo con Laterza ho un rapporto continuativo e consolidato: tre quarti dei libri che ho tradotto li ho tradotti per loro. Con Laterza mi sono sempre trovato molto bene; anche con altri, però con un campione di collaborazioni troppo ristretto per essere significativo. In ogni caso, negli editori virtuosi ho osservato comportamenti analoghi.
Parlando di pratiche meno virtuose, i primi clienti che ho avuto fra le case editrici non mi mandavano nemmeno le bozze da rivedere e all’epoca, non essendo ancora sindacalizzato, neanche sapevo che fosse un mio diritto. Solo quando ho cominciato a lavorare per Laterza (nel 2002) ho iniziato ad avere un confronto con i redattori: ed è stato utilissimo per la mia crescita professionale, perché ho potuto correggere problemi grandi e piccoli di cui prima neppure mi rendevo conto. Non sottoporre le bozze al traduttore, e in generale non coinvolgerlo nella lavorazione del libro, oltre a essere scorretto nei suoi confronti è una prassi nociva per la qualità del processo di lavorazione del libro, perché non dà modo al traduttore di crescere e migliorare le sue competenze.
Quali sono le difficoltà più grandi per un traduttore?
La solitudine, anche se è quasi un luogo comune nel nostro ambiente. Più che “difficoltà” sarebbe esatto definirla “arma a doppio taglio”, perché ha molti aspetti positivi, da quelli economico-pratici (non pagare l’affitto di uno studio, non sostenere il costo e la fatica del trasferimento casa-lavoro, poter decidere in autonomia come organizzare i propri tempi di lavoro) a quelli emotivo-relazionali (non dover gestire le complessità dei rapporti con i colleghi, non dover sottostare al giudizio continuo di un superiore). Il risvolto della medaglia, oltre all’atrofizzarsi delle capacità di relazione sociale, è che ci si radica in abitudini sbagliate e/o pratiche lavorative e soluzioni di traduzione subottimali, e si sviluppa una certa insofferenza alle critiche.
Allargando il discorso alle condizioni di lavoro, la difficoltà più grande (legata anche questa alla solitudine del traduttore, perché è l’elemento che storicamente ha reso difficile organizzarsi per un’azione comune) è la mancanza perdurante di un quadro di tutele sindacali: non ci sono minimi di compenso (e il mercato si deteriora sempre di più, almeno nel campo dell’editoria libraria), manca qualsiasi tipo di copertura previdenziale o assistenziale, proliferano condizioni contrattuali improprie e comunque fortemente sbilanciate in favore del committente.
L’antidoto (anche qui non suona particolarmente originale, ma non per questo è meno vero) è partecipare: alle liste per traduttori (da Biblit in giù), a seminari, incontri, corsi di aggiornamento e soprattutto all’attività sindacale, con STRADE o con altri.
Il testo che ti è più piaciuto tradurre.
Sono tre. Uno è Con gusto, di John Dickie (Laterza 2007). È una storia della cucina italiana condotta in parallelo con gli eventi storici generali, o vista dall’altro lato una storia sintetica dell’Italia dall’alto Medioevo a oggi attraverso l’evoluzione della sua cucina. La gastronomia e la cucina sono temi che mi interessano molto e nel libro si sfatano molti dei miti più diffusi sulla cucina italiana, in particolare le sue radici contadine e povere e l’antichità di certe ricette famose. Inoltre ha un buon ritmo narrativo: ogni capitolo è incentrato su un documento storico (di solito un libro di ricette) esemplificativo di una certa fase dello sviluppo della cucina italiana, e da lì allarga lo sguardo progressivamente al personaggio che a quel documento è collegato, alla città e al contesto sociale in cui vive e all’evoluzione politica, sociale e culturale della penisola.
Gli altri due sono La Bibbia e il fucile di Joe Bageant (Bruno Mondadori 2010) e Oltre la mano invisibile di Kaushik Basu (Laterza 2011). Il primo è uno spaccato dell’America profonda, la provincia abbandonata e deindustrializzata dalla globalizzazione, un impasto di razzismo, solitudine, violenza e autolesionismo politico, disperatamente proletaria ma senza coscienza di esserlo: l’autore (che nel frattempo è morto) è politicamente agli antipodi, ma in quell’America è cresciuto e riesce a guardarla con lucidità e compassione. È un libro molto coinvolgente, e scritto con uno stile brillante. Il secondo è un testo di economia molto sui generis: contesta l’ossessione del pensiero economico dominante per le formule matematiche e le leggi universali, che lo hanno trasformato in un’ideologia svincolata dalla realtà. Alterna parti descrittive in cui illustra con dovizia di esempi storici e citazioni colte lo stretto rapporto tra sistemi economici e norme sociali, a digressioni logico-matematiche in cui usa proprio gli eleganti strumenti matematici del pensiero economico dominante per dimostrare come le basi della discriminazione o la possibilità dell’altruismo.
Questo per i libri. Non allargo il discorso agli articoli perché la lista sarebbe troppo lunga.
Le note a piè di pagina. Un argomento complesso. Come lo affronti tendenzialmente?
Dipende dal tipo di testo. In un saggio la NdT (fra parentesi tonde o quadre nel testo oppure a piè di pagina) è più che tollerata, in un articolo molto meno, soprattutto se è un articolo con impostazione “letteraria”. Personalmente, comunque, le uso molto di rado anche nei saggi, in particolare quelle a piè di pagina: spezzano il ritmo della lettura, che è una mia fissazione. Preferisco di gran lunga la nota nascosta, nelle sue varie forme: da quella che è semplicemente una NdT “non firmata” (nel senso che anche se non viene dichiarato è palese che è stata aggiunta dal traduttore) a quella che può passare per una precisazione fatta dall’autore, fino al virtuosismo di chiarire un riferimento culturale sconosciuto al lettore italiano incorporando la spiegazione alla frase con naturalezza, “senza far vedere le cuciture” per così dire.
Anche come lettore non gradisco eccessivamente le NdT nei romanzi, mi sembrano una pedanteria filologica (e infatti le trovo più accettabili se leggo un classico). Le considero indispensabili solo quando bisogna segnalare frasi in italiano nel testo originale: se si tratta di spiegare riferimenti culturali oscuri, tranne rari casi preferisco la nota nascosta (o al limite niente del tutto e si lascia al lettore, se ne ha voglia, l’onere di informarsi). Anche quando sono usate per spiegare giochi di parole intraducibili non le gradisco molto: hanno il pregio di aprirti una finestrella sulla lingua originale, ma non compensa l’impatto negativo sulla sospensione dell’incredulità. Quel gioco di parole può essere intraducibile, ma è sempre possibile (anche se convengo che è una bella rogna) inventarne un altro che si approssimi il più possibile all’originale per registro, senso, rimandi ed eventuale effetto umoristico.
Qual è la differenza prevalente tra la traduzione di saggistica e la traduzione di narrativa?
Non ho mai tradotto narrativa in senso stretto, ma ho tradotto saggi curati nello stile e con un’impostazione narrativa, e per i giornali tantissimi reportage evocativi, articoli di commento o recensioni scritti con eleganza, articoli di scrittori famosi, in qualche caso racconti brevi veri e propri. Diciamo che più che un confronto tra la traduzione di saggistica e quella di narrativa mi sento di poter fare un confronto tra la traduzione di testi dove quello che si dice è più importante di come lo si dice e testi in cui le due cose sono sullo stesso piano (o prevale la seconda).
Nella traduzione saggistica ci sono notevoli differenze fra un testo e l’altro e fra un autore e l’altro, ma in generale il contenuto è prioritario. Non si pretende un grande stile e il registro è quasi sempre lo stesso, formale e distaccato; la chiarezza e la scorrevolezza hanno la priorità e quando il testo originale non è né chiaro né scorrevole (succede relativamente spesso), diventa più faticoso. Ma il vantaggio è che se è una frase è contorta, involuta e piena di ripetizioni, la puoi riscrivere salvaguardando il senso senza sentirti in torto con gli dei della traduzione. La complessità principale risiede nella ricerca terminologica (quando la materia è più tecnica) e nella gestione di note, citazioni (che a volte sono decine e costringono a defatiganti spedizioni nelle biblioteche), bibliografie e indici dei nomi.
Quando lo stile gioca un ruolo più rilevante, l’attenzione alle sfumature di significato, al registro, alle allitterazioni, al ritmo e alla musicalità diventa maggiore e si restringono i margini di manovra sulle singole frasi, anche se esiste sempre la possibilità di recuperare qualcosa a cui si è dovuto rinunciare in una frase (un’allitterazione, un gioco di parole, un termine forbito o ironico) in un’altra. Bisogna adeguarsi al registro e allo stile scelto dall’autore, e se non è nelle tue corde la fatica triplica (io me la cavo bene con l’ironico e il lirico, maluccio con l’aulico, male con il gergale). E se c’è un riferimento culturale oscuro devi sforzarti di esplicitarlo senza spezzare il ritmo della lettura. Il ritmo è la mia ossessione, in questo tipo di traduzioni: quando faccio la rilettura finale recito il testo mentalmente per assicurarmi che ci sia equilibrio tra le parti all’interno della frase, del capoverso, del paragrafo, e che la lettura scorra fluida seguendo la cadenza che gli ha dato l’autore; il servizio peggiore che può rendere un traduttore è rompere l’incantesimo con una frase sgraziata che fa «sedere» il testo o con una nota esplicativa non indispensabile.
Come ti aggiorni?
Poco e male. Leggo quotidianamente giornali online nelle tre lingue che conosco, sia per tenere in allenamento la lingua sia per mantenermi aggiornato sugli eventi mondiali (lavorando con i giornali è fondamentale), ma a parte questo ben poco. Non partecipo quasi mai a seminari e molto raramente a incontri sulla traduzione. Mi piacerebbe, ma me ne manca il tempo.
Nuovi progetti in corso?
Sto lavorando a una raccolta di saggi di economia sugli errori del dopo-crisi e le politiche da applicare per invertire la rotta. Dalle case editrici negli ultimi anni mi arrivano quasi soltanto testi di economia: a volte è economia pura e altre volte sono testi che sconfinano anche nella storia e nella politica. In ogni caso con gli articoli ho una gran varietà di argomenti e stili, che mi impedisce di annoiarmi.
Una risposta su “Intervista a Fabio Galimberti. Tradurre saggi economici: precisione e velocità”
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