Ciao Giuseppe, in genere ti occupi di traduzione editoriale dal francese e dall’inglese di saggistica divulgativa e narrativa – hai lavorato per Garzanti, per Vallardi, per Nord e altre realtà editoriali. Qual è il tuo approccio su ognuno di questi differenti testi?
Rischio di rispondere con una banalità (tanto per iniziare bene!): l’approccio varia in base al tipo di libro che ho davanti. E questo non solo perché, ovviamente, un romanzo appena scritto è cosa ben diversa da un classico dell’Ottocento, così come un saggio di argomento geopolitico non ha nulla a che vedere con un manuale di psicologia, un ricettario o un’intervista al Dalai Lama. Il punto, infatti, non è solo l’eterogeneità del materiale con cui mi capita di confrontarmi, ma il grado di conoscenza che posso vantare sull’argomento (talvolta discreto, per fortuna… ma non sempre!). In genere le redazioni per cui lavoro hanno un’idea di quali sono i miei campi di elezione, però – come dire? – c’è sempre una prima volta (o, se non sempre, comunque abbastanza spesso). Quindi direi che il mio approccio si basa su due elementi che si adattano “a tutte le stagioni”: tanta curiosità (d’altronde, un traduttore è prima di tutto un forte lettore) e una buona dose di umiltà nell’accostarmi a un lavoro che non smette mai d’insegnarmi qualcosa.
Qual è la caratteristica più importante che un traduttore editoriale dovrebbe possedere secondo te?
Prescindendo dai due elementi che ho citato nella risposta precedente, ritengo che un traduttore editoriale debba sempre sapere dove mette le mani. O forse i piedi: giacché è un po’ come un equilibrista sospeso su una fune. Basta un passo fatto con eccessiva (o scarsa) sicurezza, senza tener conto del vento, della luce e di mille altri fattori, e si finisce a testa in giù. Dunque dico: l’equilibrio. Che poi significa: capire in ogni momento qual è il giusto compromesso tra forma e contenuto, tra la capacità mimetica e tutta quell’enorme roba ingombrante che è il proprio vissuto, il proprio bagaglio culturale, la propria sensibilità linguistica ed emotiva. Sono infatti d’accordo con chi sostiene che la traduzione sia mimesi, però rimane il fatto indiscutibile che lo stesso testo in lingua originale tradotto da dieci persone diverse darà come risultato dieci testi diversi nella lingua d’arrivo. Magari nessuno di questi traduttori scivola dalla fune durante il percorso: però ci sarà sicuramente chi procede con un passo più elegante e agile, e chi arranca un po’ più goffamente.
Dove preferisci lavorare quando traduci?
Una delle cose che più adoro di questo lavoro è che basta un portatile (con la batteria carica, eh!) e ti ci puoi dedicare ovunque. Parlo per me, naturalmente, perché conosco diversi colleghi che su questo non transigono: per loro il “posto” di lavoro è uno e uno soltanto, la scrivania. Sarà che sono cresciuto in una famiglia numerosa e che quindi ho imparato a studiare circondato da gente, o in una stanza sempre diversa (se non in balcone o sul terrazzo), ma a me piace lavorare ovunque (che poi, come detto, è la bellezza di questo lavoro ma anche un po’ la sua maledizione). Sono convinto, anzi, che a volte lo “scenario” faccia la sua parte. Io sono siciliano, e quindi d’estate torno sempre alla “base”. E non per questo smetto di lavorare… ma vuoi mettere alzarti al mattino e accendere il portatile davanti allo scintillio del mare (con una bella granita accanto)?
Ci vuoi raccontare il tuo esordio da traduttore?
Benché a) i libri siano sempre stati (insieme ai viaggi) la mia più grande passione e b) io mi sia laureato in Lingue, sinceramente non avrei mai pensato che un giorno questo sarebbe diventato il mio lavoro. Dopo un dottorato di ricerca in italianistica e un’esperienza all’estero come insegnante di italiano… a un certo punto è arrivato il momento di capire cosa fare “da grande”. Sbarcato a Milano, ho frequentato un corso di editoria e poi ho iniziato con uno stage nella redazione di un’importante casa editrice (Garzanti, si può dire?). In un primo momento, però, mi occupavo appunto di redazione pura: ovvero di Garzantine. Poi, stando lì, è stato inevitabile che incrociassi qualche bozza, prima, e qualche revisione, dopo. Nel frattempo, tramite una cara amica conterranea che all’epoca lavorava in Kowalski, ho cominciato a lavorare anche per questa seconda casa editrice (poi del tutto assorbita da Feltrinelli). Ed è stata proprio Kowalski, a un certo punto, a propormi una prima traduzione (dopo l’immancabile “prova”, ovviamente). Era un libro un po’ particolare che trattava di viaggi nello spazio, argomento di cui sinceramente ero totalmente all’oscuro… Ma si sa: se vuoi buttarti in qualcosa, una dose d’incoscienza è condizione necessaria. Di quella prima esperienza ricordo (con un sorriso) soprattutto una cosa: l’estrema lentezza con cui procedevo. Fortuna che i tempi di consegna erano abbastanza generosi. Tanto per rendere l’idea, adesso – ovvero dieci anni dopo – traduco almeno al quadruplo della velocità.
Puoi farci un esempio di una difficoltà che mentre traducevi ti sembrava insuperabile, e che poi hai risolto?
Non nego che ogni tanto mi capitino di quei libri in cui tutto scorre senza intoppi (meraviglia!), ma il più delle volte si finisce per incappare in qualche scoglio da farti mettere le mani nei capelli. Partiamo già dal presupposto (scontato solo per gli addetti ai lavori) che tra i tempi verbali dell’inglese e quelli dell’italiano non c’è corrispondenza diretta (“I was” non significa necessariamente “ero”), e che lo “you”, con cui gli anglofoni si rivolgono indifferentemente al neonato, al prof, alla regina e a qualsivoglia divinità, in italiano richiede continuamente delle scelte: banalmente, nel caso di una relazione tra due persone che evolve – dal primo incontro, diciamo, all’amicizia o all’amore – devo essere necessariamente io a decidere (naturalmente in base a tutta una serie di elementi) quando è il momento di passare dal “lei” al “tu”. Ma poi bisogna tener conto anche dell’ambientazione geografica e temporale di un testo. Comunque, per rispondere con precisione alla domanda, forse lo scoglio più arduo, per quanto mi riguarda, è stato tradurre i versi del Cimbelino di Shakespeare: potrei elencare un miliardo di motivi (lingua del Seicento, conoscenza del sottotesto, del contesto storico, problema di come rendere la musicalità, le variazioni tra “verso sciolto” e rimato), ma basterà dire: ehi, è Shakespeare! (per quanto, lo so, non stiamo parlando della sua opera più riuscita). Altro esempio che mi viene in mente è Il profeta di Gibran, e per il motivo diametralmente opposto: qui l’asciuttezza del testo originale imponeva un’aderenza rigorosa che rischiava però di appiattire la mia traduzione su quelle già esistenti (una bella rogna, vi assicuro).
Come dovrebbe essere la relazione ideale tra traduttore e redazione, secondo te?
Finora, nelle vesti di traduttore mi sono trovato a collaborare con una decina di case editrici, e devo dire che nella stragrande maggioranza dei casi la redazione rispondeva abbastanza ai miei canoni di “ideale”: chiarezza sui tempi ma anche elasticità e disponibilità nel capire i problemi e nel cercare di risolverli insieme. In questi anni di esperienza ho capito una cosa: all’atto pratico, non esiste la traduzione “perfetta” di un testo… esiste, magari, la traduzione “più consona” per quella determinata casa editrice.
Come ti approcci alla fase di revisione del tuo testo da parte di un revisore, in genere?
Ho appena finito di dire che la disponibilità è una delle caratteristiche che più apprezzo di una redazione. D’altra parte, però, ci tengo a precisare che anch’io sono molto disponibile e aperto per indole. Tra l’altro, facendo anche il lavoro di revisore e correttore di bozze, so benissimo come ci si trova “dall’altra parte”: quali sono i problemi, le tempistiche e tutto il resto. Quindi mi fido molto dei revisori, anche perché spesso conoscono anche meglio di me il “mood” della casa editrice, ovvero il “taglio” verso cui propende.
Un consiglio ai traduttori alle prime armi?
Ai traduttori alle prime armi direi semplicemente questo: abbiate paura di sbagliare! Scherzi a parte: mi è capitato, nel ruolo di revisore, di incappare in strafalcioni veramente (ma veramente!) improponibili. Ecco… chi si accinge a fare questo lavoro deve sapere che – giustamente – in redazione si presta molta attenzione a questo aspetto: è normale che un traduttore alle prime armi possa risultare legnoso, e che la sua traduzione riporti qualche calco dall’originale. Ma la sciatteria no! Quindi: un po’ di accuratezza e mai (e dico mai!) lasciarsi prendere dalla voglia di strafare per mostrarsi bravi o creativi.
Qual è l’ultimo libro che ha letto?
E qui arriviamo alle note dolenti. Uno dei pochissimi risvolti negativi del mio lavoro è che ormai non ho più tempo e modo di leggere quello che voglio, ma solo quello che devo (per carità: è bellissimo trovarsi in mano un libro che ancora non è un libro, o che lo è magari solo all’estero, e contribuire a dargli la forma con cui finirà nelle librerie e sui comodini). Paradossalmente, però, piuttosto che rifugiarmi nelle letture di evasione, quando ho un briciolo di tempo cerco di coltivare – nei miei limiti – la mia vecchia passione per la filosofia indiana. L’ultimo libro che ho letto per intero è Meditazioni buddhiste di Jeffrey Hopkins, pubblicato da Astrolabio/Ubaldini.
A cosa stai lavorando ora?
Ho da poco finito di tradurre The Confidence Man di Melville – una botta dopo la quale mi sarebbe servito un anno sabbatico alle Maldive. Invece no: sto per chiudere un saggio sul calciomercato per Egea e, per Garzanti, un romanzo distopico che ha per target un lettore adolescente e che fa parte di una serie di romanzi di autori diversi ma collegati tra loro da personaggi, tema e ambientazioni: un mondo in cui adulti e bambini spariscono in pochi giorni, decimati da una malattia per la quale gli adolescenti erano stati invece vaccinati…