Ciao, Anna. Raccontaci chi sei.
Buongiorno a voi. Faccio la traduttrice editoriale da quasi vent’anni e traduco principalmente narrativa non-fiction. Che cos’è? Sono saggi che raccontano la realtà in maniera narrativa; nel mio caso, soprattutto storia delle idee, dei luoghi, della cultura. Per esempio, ho tradotto London Calling, il libro di Barry Miles (Edt 2012) sulla cultura underground di Londra dal 1945 a oggi. Ma anche cose come Il respiro degli abissi di James Nestor (Edt 2015), che parla della vita sottomarina, dal canto delle balene ai ricercatori che nuotano con gli squali e agli apneisiti, oppure Il paradiso ritrovato di Brook Wilensky-Lanford (Edt, 2012), una narrazione colta e insieme divertente su chi, soprattutto nel xix e xx secolo, ha cercato il sito geografico reale dell’Eden.
Hai sempre saputo di voler fare la traduttrice o ci sei arrivata per caso?
In realtà è stato un percorso tortuoso. Al liceo mi divertivo a tradurre dal greco e dal latino a prima vista, poi però mi sono laureata in filosofia. Nel frattempo leggevo molti romanzi in inglese per imparare bene la lingua, e mentre li leggevo mi veniva voglia di tradurli. Diciamo che era un po’ un istinto. Era la fine degli anni Novanta, a Milano non c’erano corsi di traduzione, ma grazie a un amico che mi ha presentato sono entrata in contatto con due editori, Sylvestre Bonnard (che ora non c’è più) e poco tempo dopo Neri Pozza: fortunatamente mi hanno preso entrambi: anche se non avevo alcuna esperienza le prove di traduzione evidentemente erano andate bene. Vittorio Di Giuro, che era direttore editoriale di Sylvestre Bonnard e a sua volta traduttore, mi ha insegnato tantissime cose. Gli devo molto e gli sono molto grata per la fiducia che mi ha dato.
Che consiglio vorresti dare a chi vuole entrare nel mondo della traduzione?
Rispetto a quando ho iniziato a lavorare io, nei primi anni del 2000, adesso ci sono molte più opportunità di formazione, e credo che frequentare un corso, se si ha la possibilità di farlo, sia utile: può aiutare a evitare degli errori che io probabilmente ho fatto. D’altro canto è anche più difficile entrare a far parte del mondo della traduzione editoriale, perché ci sono molti più soggetti che vogliono intraprendere questo percorso professionale, e i compensi sono purtroppo mediamente più bassi.
Io vorrei dire tre cose. La prima è che bisogna essere umili: all’inizio si deve tradurre un po’ di tutto, sia perché questo è un lavoro che si impara molto facendolo, sia perché è necessario trovare la propria strada. Io come tanti volevo tradurre narrativa, e con Neri Pozza ne ho avuto l’opportunità, poi ho scoperto che mi piaceva molto la non-fiction, che traducevo per Sylvestre Bonnard, e soprattutto la letteratura di viaggio, che avevo “sperimentato” traducendo qualche titolo della collana “Il cammello battriano” di Neri Pozza, perciò ho preso quella direzione. Ma naturalmente ci è voluto un po’ di tempo.
La seconda è che bisogna conservare la propria dignità: se vi propongono tariffe troppo basse non dovreste accettarle. Il lavoro ha sempre un valore, anche se si è degli esordienti. Per questo è importante secondo me non pensare che la traduzione possa essere la vostra unica fonte di reddito, soprattutto all’inizio. Io avevo un lavoro fisso, part-time, che mi garantiva un’entrata regolare e che integravo con le traduzioni.
La terza è che questo lavoro richiede molta costanza, molta pazienza: per tradurre bisogna essere disciplinati, saper gestire il proprio tempo e lavorare anche sulle singole parole. E poi ci vuole costanza per raggiungere dei risultati professionali soddisfacenti.
Come entri in contatto con nuovi committenti?
Attualmente se c’è un editore che mi interessa mando il curriculum, e poi se mi chiama faccio una prova di traduzione. Negli ultimi anni mi è capitato anche di essere contattata io da editori che magari avevano letto un mio lavoro. Però ormai ho tradotto una quarantina di titoli, e questo naturalmente rappresenta una garanzia per i committenti. All’inizio non è così semplice, bisogna farsi avanti con un po’ di faccia tosta, frequentare le fiere e i festival, fare un corso, stare con intelligenza sui social. Insomma, nel xxi secolo ci sono molti mezzi per farsi notare, usiamoli! Io adesso lavoro molto con Edt, ho iniziato credo nel 2009: avevano da poco inaugurato una collana di narrativa di viaggio e storia delle idee che mi interessava, La biblioteca di Ulisse, perciò mi sono proposta con il mio curriculum, che allora era decisamente meno ricco di adesso. Mi hanno chiamato, e da lì è nata una collaborazione molto bella, che prosegue tuttora.
Leggi sempre tutto il testo prima di cominciare a tradurre? Come ti organizzi?
In realtà non leggo mai il libro prima di tradurlo. Mi piace scoprirlo mentre procedo, e trovare con il tempo il giusto tono di voce. La traduzione è un lento processo di avvicinamento a un autore e alla sua scrittura. Per prima cosa faccio una traduzione molto grezza e molto letterale. È brutta, ma mi aiuta a restare aderente al testo, a non fare errori e a essere precisa, cosa molto importante soprattutto nella non-fiction. Quando ho finito di scrivere sono a metà dell’opera: generalmente rileggo la mia traduzione due o tre volte, curo la sintassi, riordino la punteggiatura, controllo e decido quali siano i termini più adatti. Infine traduco gli apparati, cioè la bibliografia e l’indice analitico. Dopo la consegna a volte lavoro con il revisore, ci confrontiamo se ha dei dubbi o se ci sono dei passaggi non chiari che bisogna modificare.
Qual è la cosa che ami di più di questo lavoro? E quella che ami di meno?
La cosa che amo di più è scrivere, comporre materialmente il testo. Dovete pensare che il traduttore quando inizia un nuovo lavoro si trova davanti la classica pagina bianca. Altrettanto entusiasmante è cercare di mantenere sempre l’equilibrio tra precisione e creatività. Secondo me questo è l’aspetto più importante, direi fondamentale, del lavoro di traduzione.
Invece quello che mi sta pesando, che attualmente mi piace meno, è la solitudine. Si lavora in casa, si hanno pochissime occasioni di confronto con i colleghi e con il mondo esterno, dal punto di vista professionale, e questa cosa a lungo andare è sfibrante, almeno per me. Per fortuna ci sono i social e le liste dedicate, con cui mi tengo in contatto e scambio informazioni con gli altri traduttori e con chi lavora nel settore editoriale.
C’è una traduzione che hai amato particolarmente, e perché?
Ammetto di essere fortunata, in qualche modo, perché sono davvero pochi i libri che non mi è piaciuto tradurre. O forse, come dicevo sopra, a un certo punto ho capito che cosa volevo fare, nel campo della traduzione, e mi sono buttata in quella direzione. Per cui no, forse non c’è un libro che amo più degli altri. Alcuni, come la storia del Chelsea Hotel di New York (Sherill Tippins, Chelsea Hotel. Viaggio nel palazzo dei sogni, Edt, 2014), in cui hanno vissuto scrittori, artisti e rockettari, magari mi hanno particolarmente divertito mentre li traducevo, altri li ho trovati forse più noiosi, però non saprei citare un “preferito”.
Come sono i rapporti con gli autori che traduci? Ti metti in contatto con loro per avere chiarimenti sul testo?
In realtà non è la norma entrare in contatto con gli autori, soprattutto nel settore della non-fiction, e spesso non servirebbe neppure. Di solito se c’è qualche problema sul testo la casa editrice fa da filtro, e si cerca di risolverlo con l’editor. Un anno e mezzo fa invece un medico-scrittore inglese, Gavin Francis, ha voluto leggere la mia traduzione del suo libro prima che uscisse, perché conosce un po’ l’italiano; il libro si chiama Avventure nell’essere umano (Edt 2016), ed è un racconto molto poetico e divertente di come siamo fatti, di come funziona il nostro corpo; la traduzione gli è piaciuta e nel frattempo ho potuto chiedergli lumi su alcuni dubbi che mi erano rimasti. È stata un bella esperienza, siamo rimasti in contatto.
Poi si creano anche rapporti di continuità, quando traduci più libri dello stesso autore: alla fine diventa un po’ tuo amico. A me sta capitando con un biologo americano, Bill Streever, che ha scritto un libro sul freddo, Gelo, uno sul caldo, Calore, e l’ultimo, sul vento, che uscirà tra qualche mese per Edt, come gli altri due.
Per chiudere, ci racconti su cosa stai lavorando?
Ho appena finito la prima stesura della traduzione di un libro che racconta la storia di tre donne volitive e indipendenti, Luisa Casati, Doris Castlerosse e Peggy Guggenheim, e del loro rapporto con la città di Venezia nell’arco del Novecento. Un altro libro che, tanto per cambiare, mi è piaciuto molto.
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