intervista di Nicole Bonacina
Ciao Giuseppina. Prima di tutto ti chiederei di presentarti ai nostri corsisti. Traduci prevalentemente narrativa o saggistica? Vuoi nominare qualche opera da te tradotta?
Traduco soprattutto narrativa, anche se qualche piccola incursione nella saggistica c’è stata, soprattutto quando ho iniziato a tradurre dell’inglese, nel 2004. Gore Vidal, una teoria alternativa dell’11 settembre, e poco altro. Di fatto questa attività l’ho cominciata nel 1987, data della mia prima traduzione pubblicata, dal tedesco. Era la mia tesi di laurea, la traduzione con relativa introduzione di un testo di Maxie Wander, scrittrice tedesca orientale, e per caso le Edizioni e/o avevano comprato i diritti del libro e il mio relatore mi ha messo in contatto con loro. Quando poi, per una serie di vicende di vita, sono andata a vivere negli Stati Uniti, per qualche tempo ho smesso – stordita dal nuovo mondo che stavo conoscendo e dalle sue diverse necessità –, e quando ho ricominciato, l’inglese era diventato la mia seconda lingua e mi sono dedicata a essa. È stato così che con il tempo sono diventata la voce italiana di Peter Cameron – il primo testo tradotto è stato Someday This Pain will Be Useful to You, Un giorno questo dolore ti sarà utile – e di Hilary Mantel, vincitrice di due Booker Prize. Poi, fra gli altri, ho tradotto John Irving, Andrew Sean Greer, Kiran Desai, James Lasdun, John Burnside e numerosi altri.
Hai sempre saputo di voler fare la traduttrice, o ci sei arrivata per caso?
Ci sono arrivata quasi per caso, durante il periodo in cui decidevo che tipo di tesi volevo fare; da sempre però avevo due motivi conduttori centrali nella mia vita: per un verso desideravo tanto vivere a stretto contatto con la parola scritta, anche se non sapevo bene in quale forma concretizzare questa frequentazione con l’unico luogo in cui mi sentissi completamente a mio agio, e per l’altro ero estremamente affascinata dalle lingue e, ho scoperto in seguito, dalle culture straniere. Frequentare il corso di Lingue e Letterature straniere della Sapienza, a Roma, mi è venuto naturale, ma la possibilità di coniugare questi due aspetti della mia personalità è stata dovuta alla necessità, al tempo della tesi, di scegliere fra una materia di teoria del linguaggio e un confronto pratico fra due lingue scritte, nell’area della germanistica. Ho optato per la seconda, e con mio grande stupore mi si è aperto un mondo che non ho mai più abbandonato.
Che consiglio vorresti dare a chi vuole entrare nel mondo della traduzione?
Difficile a dirsi. Nel periodo in cui ho cominciato io, molti anni fa, non esistevano i corsi, i laboratori di traduzione come oggi. Per anni, cominciando nel periodo in cui scrivevo la tesi e traducevo Maxie Wander, ho avuto la fortuna di frequentare Moshe Kahn, pluripremiato traduttore di letteratura italiana in tedesco. Sono andata a bottega da lui, in pratica, sotto forma di lezione privata, e lui, con estrema pazienza, cultura, profondità e gioia di insegnare, mi ha aiutata a imparare il mestiere e quando mi ha ritenuto all’altezza, a ampliare le mie conoscenze nel mondo editoriale. Oggi ho l’impressione che gli incontri fortunati e proficui possano ancora essere un modo per inserirsi. Ma bisogna fare in modo che questi incontri avvengano, bisogna andarli a cercare, e soprattutto bisogna che avvengano sulla base del proprio impegno costante ad affinare tutti gli strumenti necessari a svolgere questo mestiere: la capacità di leggere – di leggere in profondità e con sensibilità nella propria e nella lingua di partenza – e la capacità di scrivere – e scrivere al servizio di un altro testo già esistente, con tutto il rispetto, la flessibilità e il bagaglio culturale che ciò comporta. Non consiglierei mai invece di costruirsi un curriculum traducendo a ogni costo, anche senza essere pagati, o pagati una cifra ridicola. Questo di per sé vuol dire lavorare per persone poco serie, che aiutano principalmente a svilire un mestiere che per quanto spesso trascurato è molto prezioso e richiede una lunga preparazione. Inoltre, non consiglierei mai di avventurarsi in questo mondo senza conoscere bene il tipo di contratti che si devono sottoscrivere, la legge sul diritto d’autore, nella quale un traduttore rientra a pieno titolo, e le forme di contrattazione che bisogna imparare. Per chi comincia – ma anche per chi continua nel mestiere – è bene tenere presente che esistono almeno due associazioni alle quali rivolgersi, una di stampo più prettamente sindacale, Strade, e l’altra di stampo più meramente professionale, Aiti, e tramite le quali imparare a destreggiarsi in campo editoriale senza inquinare il mercato e a sostenere la propria formazione continua.
Leggi sempre tutto il testo prima di cominciare a tradurre? Come procedi?
L’ho sempre fatto fino a qualche anno fa, quando ormai l’esperienza era tale che era più divertente scoprire il testo mentre lo traducevo rispetto al contrario. Questo non lo consiglierei mai a chi è alle prime armi, perché, a mio avviso, inquadrare il tipo di esigenze di un testo anche senza averlo letto completamente, è frutto di esperienza, prima di tutto. La lettura per fasi successive porta alcuni problemi, ad esempio aggiustare il tiro in corso d’opera, una volta scoperto il vero valore di alcune espressioni alla luce di tutto il testo; è anche un modo però per verificare quanto si è colto dell’autore e delle chiavi che dissemina nel testo, e se la propria lettura è stata sufficientemente profonda da coglierle, anche se individuarne il peso espressivo preciso per tradurle avviene soltanto a lettura completata. Del resto si sa, la traduzione avviene fra testi, non fra singole parole.
Come entri in contatto con nuovi committenti?
Per via di un incontro, di un testo proposto, o di un autore che passando da un editore a un altro vuole che sia ancora io a tradurre i suoi libri. Raramente ho ampliato il mio ventaglio di committenti tramite curriculum, anche se quando ho ricominciato – nel periodo in cui ho preso a tradurre dall’inglese – possederne uno di una certa solidità mi è stato di enorme aiuto.
C’è una traduzione che hai amato particolarmente, e perché?
Finisco per amarle quasi tutte, perché una volta che mi calo nella “voce” del testo, stabilisco un rapporto anche affettivo, che mi permette di rispettare il testo di partenza e dargli tutto quello di cui sono capace. Ma l’incontro a cui sono più affezionata è quello con Someday This Pain Will Be Useful to You. Ho amato quel libro sin dalla prima pagina che ho letto (e l’ho letto tutto prima di tradurlo, e di un fiato) per via del tocco delicato, sensibile, elegante, ironico del suo autore; per via di un’affinità nei valori che esprime, tanto da farmi decidere di incontrarne anche la persona che lo aveva scritto. È stato il regalo più bello che mi sono fatto: con Peter Cameron siamo diventati amici e non solo ho il piacere di tradurre i suoi libri, di essere la sua ombra italiana, ma anche di poter parlare, scambiare idee e opinioni con una persona squisita, capace di intelligente semplicità pur nella sua complicatezza.
Per chiudere, ci racconti su cosa stai lavorando?
Ho chiuso in questi giorni la prima stesura del romanzo di Hilary Mantel An Expriment in Love, del 1995, storia di una formazione femminile. Una studentessa degli anni Sessanta, per frequentare l’università insieme ad alcune compagne del liceo, va a vivere in una residenza studentesca a Londra, lontano dal proprio piccolo centro di provincia. Carmel McBain ci racconta in prima persona cosa è accaduto in quella stagione, con quale ferocia ha dovuto scontrarsi e venire a patti per conquistarsi un suo posto nel mondo. Nelle classi medio-basse, si trattava delle prime generazioni che potevano accedere in scala più ampia all’istruzione superiore, e quelli erano anche gli anni delle rivolte studentesche in Francia, ma non in Inghilterra, dove pure l’eco di quelle lotte arrivava. Questa è la storia di una lotta interiore, più che esteriore, di un confronto duro con l’educazione religiosa ricevuta e i sensi di colpa inculcati, con il corpo che scopre esigenze negate alle donne, con la mente che si è vista imposta rigidi canoni educativi lontani dalle nuove sfide per raggiungere un’indipendenza anche economica, una mente che vede ma non sa leggere fino in fondo le proprie spinte alla rivalsa. È una storia di ferocia, personale e sociale. È Hilary Mantel, grande scrittrice che sa piegare la prosa al passo ritmico della poesia, che sa spaziare dalle vette più alte all’infimo degli abissi, e che con le sue solide e ampie capacità di scrittura sa fa saltare sulla sedia il traduttore, regalandogli però anche enormi soddisfazioni.